
Quando nel 2002 partecipai ad un forum di creativi a Rimini basato sulle applicazioni per Macintosh (ai tempi "Mac" era riservato agli affezionati, gli altri lo chiamavano per esteso), i computer pensati a Cupertino erano ancora prodotti di nicchia.
Non erano migliori nè peggiori rispetto ai dispositivi venuti dopo. Nel 1997 l'azienda era stata rilanciata dopo un lungo periodo di crisi. Esisteva dal 1976 con alterne fortune. Non era un logo alla moda. Veniva da delusioni epocali come il flop sul mercato delle console per videogiochi.
Il resto è storia recente. Quella che vi hanno raccontato in questi giorni dopo la morte dell'ex numero uno dell'azienda.
Uno che ha fatto prodotti ottimi per una vita, ma che è diventato un grande imprenditore solo nell'ultimo decennio della sua esistenza.
E' stato celebrato (meritatamente), purtroppo per lo più per sentito dire, da chi ha conosciuto prevalentemente la fase finale, ovvero quella dei suoi successi imprenditoriali, commerciali e strategici. Non i suoi prodotti (buoni da sempre) ma il suo successo planetario (arrivato dal 2005 in poi).
Quella storia della follia e della fame è poetica, ma ha i suoi pro e i suoi contro, perchè puoi anche inventare le cose dieci anni prima degli altri, ma in questo mondo se non è il mercato a decretare il tuo successo rimani un perdente (non sempre di lusso).
Interessante, in questo senso, l'analisi di Max Giuliani nella odierna rubrica su Bresciaoggi, "Linguaggi nella rete", a proposito del fiume di parole dei giorni scorsi.
Non sarebbe stato così ovvio, qualche anno fa, veder celebrare come un'icona pop un ricco imprenditore appena defunto. Mentre scrivo, la frase «stay hungry, stay foolish» dal discorso di Steve jobs alla cerimonia dei diplomi a Stanford, 2005, ricorre in Google dieci milioni e mezzo di volte (un qualunque verso di «Imagine» di John Lennon non arriva alla metà).
Se Alberoni nel 1972 distingueva le star dello spettacolo (le «élite ammirate») da altre personalità come politici, scienziati, manager (le «élite invidiate»), la distinzione appare oggi alquanto superata, a giudicare dall'emozione che ha accompagnato la scomparsa di Steve jobs, celebrato per il genio ma anche per una storia personale di quelle che ci piace sentir raccontare: non era un figlio di papà, ma aveva un'idea e ce l'ha fatta. Bisogna dire che la rete restituisce di jobs un'immagine complessa. Matteo Bordone (blog.wired.it/ifiona, giovedì 6) identifica il fattore che determina la differenza incolmabile fra «l'uomo più influente degli ultimi vent'anni di tecnologia» e tutti gli altri: è l'«affetto» che l'uomo e i suoi giocattoli si sono conquistati. Il post del 26 settembre su www.wumingfoundation.com/giap alimenta ancora la discussione: va bene apprezzare le creazioni di Apple, ma altro è l'idolatria (il numero dei suicidi nella multinazionale cinese che assembla i prodotti della mela fa meno rumore dell'inaugurazione dell'ultimo store). Pippo Civati, domenica 9 su civati.splinder.com, commenta ironicamente il successo che quel verbo «stay» («restare») ha riscosso in una «Italia immobile» che non si mette più in gioco, mentre in tanti sorridono condividendo il post «Se Steve fosse nato in provincia di Napoli» (antoniomenna.wordpress.com, 8 ottobre).
E non manca Bill Gates, che twitta: «Mi mancherà immensamente».
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